Le conchiglie dei podisti

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Aron aveva un vincolo affettivo con il vino. Gli ricordava suo nonno e tutti gli insegnamenti ricevuti tra le vigne. Le notti di vendemmia, la luce della luna tra le viti.
Con il gin aveva un legame spirituale, perché liberava il suo lato espressivo e artistico. Memorabili reperti di cinematografia, quali “Carrello giù dalla collina” e “Bagni confortevoli” oppure “Io, ubriaco, mentre cado a terra e vomito”, opere d’avanguardia fauvista del terzo millennio. Le sue performances erano la svolta della serata, tranne per chi alla fine era costretto ad assisterlo o a cercarlo tra i vicoli.
Infine, con il whisky aveva un legame materiale, era il simbolo del suo status quo tanto sbandierato.
Da rockstar dannata ma con il mondo in pugno. Che se ne frega di risvegliarsi su marciapiedi sconosciuti sotto i piedi dei lavoratori.
Lui aveva vissuto più in una notte che chiunque nella sua intera vita, peccato che non se lo ricordasse nemmeno. Ciò gli permetteva di inventare straordinarie palle che includevano spesso centinaia di chilometri di autostrade, incontri con sconosciute e strade sterrate. La storia di Aron, tutte le sere.
Lui era una sorta di traino alcolico, un coach del gomito alzato.
Il suo colorito era verdognolo, stava considerando di colorare di nero il grappolo d’uva tatuato sulla spalla, che ormai sembrava una scoria fumante e radioattiva.La storia di tutti, chi più chi meno, tatuaggi a parte.

Ma assistevo ad un capovolgimento particolare.
Aron e Fausto in una fontana a forma di conchiglia e intorno sirene e tritoni a versare vino, fauni ad adulare e schiavi a chiudere le canne.
Loro erano il fulcro, erano gli ispiratori delle rappresentazioni sacre legate al culto di Bacco. La credibilità che si erano guadagnati nel settore era garanzia di ubriachezza e ubriacature. Si facevano i cazzi loro mantenendo il rapporto con la bottiglia alla luce del sole come una fidanzata decennale, fino ad arrivare al punto in cui nessuno la nota più.

Fino a che qualcuno decise di diffamarli portandoli lontano dalle serate gloriose, ai margini delle piazze sudice e puzzolenti.
Reputazione in fumo, un duro colpo per gente che aveva un briciolo di cervello e il pensiero libero come un cavallo selvaggio. Di più: una sentenza di fallimento. Per un po’ di tempo decisero furbamente di spacciarsi per pazzi, in modo da avere la licenza di comportarsi come volevano sena dovere scuse a nessuo. Un ottimo espediente per ottenere accondiscendenza, ma in fondo non gli fregava niente di niente e nessuno. Potevano restare a marcire in quel buco, loro, le dicerie, il lavoro, gli esami e le festività comandate.
Tutto quello che gli interessava era andare a sbronzarsi in piscina con le pance gonfie al sole e i piedi in ammollo.
Una società del bivacco, dello sbraco collettivo e creativo. Attitudine sperimentata fino a toccare i marciapiedi più lerci delle principali città europee.

Non mi andava più di partecipare al banchetto, le spinte poetiche si fermavano davanti all’altrui brama di sconvolgere il pubblico in preda agli spiriti del vino. Salire sui tavoli a decantare pensieri sconnessi prima di bersi il cervello, sbraitare come in preda al morso di una tarantola prima che i tamburelli iniziassero a suonare. Abbandonarsi a vaporosi gesti lascivi nelle braccia del compagno di giochi e tracannare bicchieri su bicchieri non mi dava più niente. Vedevo il fondo della bottiglia come un dato di fatto: è finita.

Non eroi dunque, quelli che fanno sfoggio delle sbronze solitarie sopravvissute alla notte, ma una massa di molli, futuri cardiopatici, capaci di formulare pensieri solo dopo il terzo bicchiere. Ma a quel tempo si preferiva la boutade goliardica seguita da risate. L’individualismo della performance alcolica, con i migliori auguri che quello stesso non si trasformi nella solitudine degli ultimi.

Le tre porte

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Il mio sguardo corre tra la porta, la chitarra e la bottiglia di vino. La porta. La chitarra. La bottiglia di vino.

Tutte e tre sono porte riflettendoci bene. La prima, l’unica con la maniglia, si apre verso l’ingresso. Da lì un’altra porta apre verso le scale che portano a un portone, il portone dà sul cortile che porta all’ultimo portone. Poi finalmente la strada. Troppe porte tra me e una strada buia, deserta a quest’ora. Con Mohammd ancora nell’internet point a guardare un porno. E’ una porta fisica ma falsa.

La chitarra è una porta che si apre verso una strada di note, di cui non conosco che il suono, e non lo indovino prima che esca fuori dalle corde. La chitarra è la porta per un treno che non so dove porta.

Il vino mi porterebbe su quel treno che forse finirebbe in un fantastico nulla di note storpiate, una strada dissestata dove a ogni dosso mi cade il bicchiere e il vino mi macchia il maglione giallo.

Mangerò un altro po’ di patatine al pepe, sono davvero buone. Poi fumerò una sigaretta.

Non prenderò nessuna porta: è ancora presto, e ho già smesso di fumare.

Goliardia male orientata sulla parità dei sessi

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Ero appena uscita da una trattoria da sbornia pesante con vinaccio avariato, tipica per studenti cazzoni e squattrinati. Ci muovevamo come un gregge disordinato alla ricerca di una méta, quando passa questo tizio sconosciuto e gli altri si precipitano nella sua macchina. Eravamo in otto lì dentro, schiacciati contro la carrozzeria, eravamo un tutt’uno con essa.

Il tragitto è stato breve e confuso, quando arrivati davanti a un baretto di cocainomani reietti, scendiamo dalla macchina. Appena poso piede a terra il tizio che mi stava vicino, uno sbarbato toscano che si era dimenticato il cervello a casa e pensava di fare il temerario, o forse non lo aveva mai avuto e si nutriva del coraggio degli stolti, mi alza la gonna scoprendomi completamente le natiche. Mi giro a guardarlo nei suoi occhietti alcolici, mentre pare che dalla bocca gli scenda un filo di bava umida.

“Riprovaci un’altra volta e ti tiro un calcio nei coglioni, idiota!”

E lui “Ma che t’ho fatto, la parità dei sessi e altre menate e poi non hai un minimo di apertura mentale!”

“Riprovaci e sarai tu ad avere qualcosa di aperto.”

Lo sbarbato si allontana, si guarda intorno con fare circospetto e torna alla carica, ciondolando mentre versa la birra a terra ad ogni passo.

“Che sarà mai, come se non avessi mai visto un culo.”

“Ascolta, se io ti scendessi i pantaloni qui, in questo momento, davanti a tutti, tu saresti contento, sì?”

“Eh…sì!”

“Ecco, vedi, la parità dei sessi e tutto quello che vuoi, ma non significa che non ci siano differenze tra uomini e donne. Questa è una di quelle. Non c’entra niente con il rispetto che uomini e donne meritano a prescindere, che io chiamo uguaglianza. Io ti ho avvisato, e se ci riprovi un calcio nelle palle non te lo toglie nessuno.”

Il ragazzo se ne va, continua a ridere, forse pensava ancora ai ruoli invertiti che gli avevo prospettato, ma tanto sono gli uomini, vivono di seghe mentali.